martedì 17 novembre 2015

Quando è successo? Riflessione più o meno seria sulla “mammità”

L’altro giorno mi sono trovata a parlare con un’altra madre. Si discuteva di allattamento. Lei, pur sapendolo già, mi fa la fatidica domanda “ma gli dai l’aggiunta?”, chiedendolo con il tono con cui si chiede questa cosa, ovvero “se gliela dai dillo a bassa voce e un poco vergognati”, io le rispondo che “sì, la do” e lei replica soddisfatta “ah! io solo latte mio”. So per certo che questa donna da anche il latte artificiale al figlio (non vi racconto il perché io lo sappia visto che è una storia lunga). Adesso so per certo che lo fa di nascosto, come se stesse rubando, come se stesse facendo qualcosa di male per sé e per suo figlio, magari raccontandosi chissà quale storia per giustificare la necessità di mentire agli altri. Lì per lì ho pensato “Poraccia questa, Dio Santo!”. Poi mi sono ricordata che qualche mese fa, ero ancora incinta, ho visto una donna piangere perché al sesto mese forse avrebbe dovuto dare la famosa aggiunta al figlio. L’ho vista poi sentirsi in dovere di giustificarsi con me sul fatto che avesse dato una volta l’aggiunta ma poi mai più, “giuro”, perché non ce n’era bisogno, tranquilli tutti, il latte suo c’era ancora, “ricordi quando ho dato la bottiglia? no…poi si è risolto…”.
Io neanche me ne ricordavo. Non sapevo manco cosa fosse l’aggiunta. Soprattutto, non me ne poteva fregare di meno.
Ho saltato alcuni incontri del corso preparto. Quelli in cui si parlava del parto cesareo, perché le ostetriche tendevano a fartelo apparire come una specie di mattanza in cui avresti combattuto tra la vita e la morte e tuo figlio ne sarebbe uscito di sicuro emotivamente provato, non avresti potuto prenderlo in braccio, poi depressione post partum e via dicendo. Ok, è pur sempre un intervento. Ok, è pur vero che spesso si fa inutilmente perché al ginecologo fa comodo così, ma io mi sono detta “se in quel momento mi troverò a dover fare un cesareo di urgenza? Come reagirò con tutti questi racconti del terrore nella testa?”. Ho risolto: all’incontro informativo sul cesareo non sono andata.
Faccio un salto in avanti, ho partorito già da un paio di mesi, naturalmente, senza epidurale, mille punti in più agli occhi di quelli che te lo chiedono, incontro un’altra ragazza che ha partorito, mi dice “io non ce l’ho fatta, ho dovuto fare il cesareo”. Me lo dice con lo stesso tono con cui forse avrei dovuto dire a quella che mi chiedeva dell’allattamento “io do l’aggiunta”.
Faccio un salto indietro. Ho partorito da pochi giorni, incontro una ragazza della mia stessa età, senza che le avessi chiesto nulla mi dice che lavora troppo per avere un figlio, poi mi chiede se stessi lavorando, io le rispondo di no, lei dice “quindi sei mamma full time”.
Penso tra me e me che “mamma full time” è una delle espressioni più raccapriccianti che abbia mai sentito nella mia vita. Detta da una donna poi mi stride ancora di più. Perché si può essere mamma part time. Perché una madre che lavora è una madre part time, quindi un po’ sfigata. Una madre che non lavora è madre full time, quindi niente realizzazione professionale, allora sfigata pure lei.

Ho ripensato a tutte queste cose e mi sono chiesta “quando è successo?”.
Quando è successo che siamo diventate “il modo in cui partoriamo?”
Quando è successo che siamo diventate “qualcuno” ai nostri occhi se partoriamo e se lo facciamo “naturalmente”?
Quando è successo che siamo diventate delle eroine se allattiamo?
Quando è successo che diciamo “full time” e “tempo determinato” anche quando parliamo di maternità?
Chi lo ha deciso?
Possibile che proprio noi donne, non sappiamo raccontare alle altre donne che il nostro corpo ha la possibilità di partorire e di allattare nella misura che più gli appartiene senza utilizzare altro strumento che sia il terrore o il ricatto della “sconfitta”? Perché noi donne non sappiamo insegnare alle altre donne che siamo di più e soprattutto "altro" dal modo in cui partoriamo, allattiamo e gestiamo o non gestiamo la maternità? 

Non so di chi sia la colpa. Non so perché abbiamo iniziato a giustificare le nostre scelte. Ma so che spesso l'impietosa "sentenza di colpevolezza" non esiste. Almeno non fuori dalla nostra testa.




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